Intensa, irripetibile, indimenticabile.

A gennaio 2017 ho frequentato i dieci giorni del corso di meditazione Vipassana secondo gli insegnamenti di Goenka J. e questi sono i tre aggettivi che ancora oggi do a questa esperienza. Ecco cosa scrivevo al mio ritorno, il 26 gennaio 2017.


E così ce l’ho fatta. Sono andata e tornata dai dieci giorni del corso Vipassana: non mi sono fatta prendere dal panico prima di partire, non sono scappata venuta via prima della fine. Ho iniziato dal giorno 1 (anzi: 0) e ho finito il giorno 11.

un paesaggio innevato, sulla sinistra indicazioni stradali in legno: "vipassana"
Le indicazioni per raggiungere il centro Vipassana

Quando si arriva ad un corso Vipassana quello che si sa è che

  • Gli orari sono rigorosi e precisi: ci si sveglia alle 4 di ogni mattino e la giornata è scandita da meditazioni in sala o nella propria camera, per circa 11 ore totali, ci sono pause per la colazione, il pranzo e un tè con della frutta alle 17. Non c’è cena, si finisce di meditare alle 21, alle 22 al massimo si spengono le luci per la notte.
  • Si deve rispettare il più rigoroso silenzio verso gli altri meditatori. Niente parole, ma nemmeno sguardi, gesti, tocchi.
  • Ci sarà separazione completa tra uomini e donne.
  • Non si può avere contatti con l’esterno. In caso di problemi qualcuno ci potrà contattare e noi potremmo contattare fuori, ma nel momento in cui questo avvenisse saremmo costretti ad interrompere il corso.
  • Si aderisce a Sila, il codice di condotta morale, che in effetti non ha niente di assurdo: si promette che non si ucciderà nessun essere vivente (e a questo pensi la prima volta che vedi un ragno in bagno), che non si mentirà (ma tanto non parli, come fai a mentire?) che non si avrà una condotta sessuale scorretta (il che vuol dire che non arrecherai danno a nessuno con la tua condotta sessuale, ma comunque in questi dieci giorni non dovrai avere alcuna condotta sessuale), che non si ruberà (e ci mancherebbe), che non si farà uso di intossicanti: alcool, droghe, fumo (per dieci giorni lo si può fare, no?).
  • Si lascia il cellulare e tutto quello che ci può distrarre dall’imparare a meditare (compresa carta e penna e qualsiasi cosa da leggere) ai responsabili del corso.
  • Ci si prende un impegno serio a non lasciare il corso prima della fine dei dieci giorni: sarebbe poco utile per se stessi, ma anche destabilizzante per gli altri.

Questo, e molto di più, è chiaramente spiegato nel sito dell’Associazione Vipassana. Tutte le informazioni pratiche sono lì e comunque vengono ripetute quando fai la richiesta di iscrizione e un’ultima volta quando sei già lì e confermi di volerci davvero restare. Inoltre non puoi parlare con i tuoi compagni di corso, è vero, però in ogni momento puoi chiedere informazioni o spiegazioni a chi gestisce il corso, o anche, nei momenti riservati a questo, fare domande riguardanti la tecnica all’insegnante.

Poi inizia il corso.

Si capisce subito che tutto è strutturato in modo che si impari Vipassana tramite tre passaggi fondamentali: Sila (il codice di condotta, senza il quale non puoi arrivare alla vera conoscenza), Samadhi (la comprensione teorica del concetto) e Pañña, la saggezza che deriva dallo sperimentare nel corpo il concetto che era stato già compreso teoricamente, per farlo davvero tuo.

Ogni sera si ascoltano i discorsi del Maestro, che sono registrazioni dei discorsi originali di S. N. Goenka, in cui dalla sua voce (in traduzione) senti la spiegazione di quello che stai facendo, del perché e del significato più filosofico del lavoro. In ogni caso il peso più grande è nella pratica: Vipassana può esistere ed essere praticata anche senza aderire alla sua matrice teologico-religiosa: viene ripetuto molto spesso, ed anche io ne sono convinta.

Il Nobile silenzio

Al suono del gong della sera del giorno di arrivo inizia il silenzio. Mi sono accorta subito che parlare non è la cosa più faticosa di cui privarsi in questi casi. Il Nobile Silenzio è completa assenza di comunicazione: non si può avere contatto fisico, non ci si può guardare.

Non ci si può dire grazie, chiedere scusa, non si può sorridere a qualcuno.

Quello che più mi è mancato è stato proprio sorridere. Ci sono stati dei momenti buffi, che avrei voluto condividere con chi mi stava a fianco ma non ho potuto farlo. Non solo avrei infranto io una regola che avevo accettato di seguire, ma con la mia azione avrei costretto anche l’altra a trasgredire: chi sono io per decidere per un altro?

Con il passare dei giorni e l’aumentare di questa fatica ho capito perché tante di noi portavano veli o cappucci: non esclusivamente per se stesse, ma anche per non creare disagio alle altre.

Qui faccio una confessione: c’è stato un momento, durante il corso, in cui una persona mi ha rivolto la parola. Non mi ha detto niente di importante, niente di clamoroso, niente che riguardasse la pratica del corso, ma mi ha fatta sorridere. 
È stato bellissimo.
Mi ha parlato esattamente nel momento in cui io stavo per decidere che tutto quello in cui mi ero cacciata non era sopportabile, un piccolo soffio di serenità che mi ha dato l’energia per poter continuare. Non siamo state furbe, non abbiamo fatto bene a parlarci, ma se lei non l’avesse fatto forse io non avrei continuato a restare lì.

L’ascolto

I primi tre giorni servono ad addomesticare la mente e ad allenare la sensibilità imparando una meditazione che si chiama Anapana. Ci si concentra sul respiro, si cerca di ascoltarlo e poi di ascoltare le sensazioni che il suo passaggio provoca in una piccola zona del viso: intorno e sotto il naso prima, solo sotto il naso poi. La pratica è costante e continuativa, sempre, senza soste se non per mangiare e dormire.

Undici ore di tentativi al giorno, così funziona.

In questi primi giorni mi sono accorta che la mente piano piano smetteva di vagare per minuti interi nei pensieri, e sempre più facilmente si placava e mi lasciava fare il lavoro che volevo e dovevo fare: ascoltare.

La concentrazione migliorava sempre di più, avevo veramente la percezione che la mente si stesse affilando e si calmasse, cominciavo a percepire di averne di più il controllo. Il quarto giorno ero pronta per imparare davvero la Meditazione Vipassana, che non consiste in altro che mettersi in ascolto di tutto il corpo, osservandolo sia parte per parte che globalmente, usando la stessa tecnica per cui ci si è allenati nei primi giorni.

A quel punto si inizia a percepire sensazioni che in ogni momento emergono in tutto il corpo. Alcune sono piacevoli, altre spiacevoli, e spontaneamente capita di speraredi sentire questa o quella sensazione, e magari anche di sperare di non sentire questa o quell’altra.

Cos’è una sensazione?

Alcuni esempi di sensazione sono caldo, freddo, tensione, pressione, allentamento, prurito, solletico, dolore, pizzicore, intorpidimento, pulsazione. Non importa il perché, importa il cosa: “ho prurito, ma è perché ho la maglia di lana” ok, ma la sensazione è prurito. Ci si allena a sentirle e riconoscerle, ed infine a passare oltre una volta che si sono percepite.

Anicca, l’impermanenza

Nei discorsi serali iniziano ad emergere le prime indicazioni che fanno riflettere: ogni sensazione ha la stessa caratteristica, quella di sorgere e passare, sorgere e passare. Non ha senso bramare le sensazioni piacevoli e rifuggere quelle spiacevoli: in ogni caso queste arriveranno e poi passeranno. Ti senti ripetere molte volte che il tuo ruolo è quello di percepirle e di osservarne proprio la caratteristica di anicca (impermanenza, in una lingua che si chiama Pali). Capisci che fuor di metafora quello a cui si vuole farti arrivare è che niente è per sempre, e che se capisci veramente questo concetto potrai vivere molto meglio la tua vita, gustandoti ogni momento presente, senza rimanere ancorato al passato che ovviamente ormai non c’è più e senza sperare in un futuro che non c’è ancora, sul quale non puoi contare.

L’impermanenza è un concetto ovvio e comprensibile con la razionalità, ma qui quello che accade è che lo sperimenti nel tuo corpo.

Ogni ora del corso, ogni azione che fai, ogni giorno che passa e anche l’intero corso preso come contenitore esterno sono studiati per farti sperimentare Anicca.

Mi sono resa fisicamente conto che non solo ogni sensazione era temporanea, ma che lo era anche la fatica dell’ora di meditazione in seduta di Adhiṭṭhāna (in pali: forte determinazione, è un’ora di meditazione in cui ci si impone di stare immobili), che il tempo passava mentre cercavo di meditare undici ore al giorno, anche se a me sembrava interminabile, che ad ogni giorno ne sarebbe seguito un altro, e che alla fine il corso si sarebbe concluso, il mio silenzio sarebbe cessato, sarei tornata a comunicare e avrei potuto rivedere chi avevo lasciato a casa.

Nei momenti di meditazione mi sono messa in ascolto profondo di ogni sensazione, prendendomi il tempo necessario per verificare se ce ne fosse una che fosse sempre costante e uguale a se stessa e no: non c’è. Prima di partire avevo sentito che con Vipassana si capisce che ogni dolore prima o poi passa e in effetti è così, alla lunga (male male quando si muore, no?) però la realtà è che ogni dolore (ma anche ogni sensazione piacevole) ha una caratteristica ondulatoria: sorge e passa, sorge e passa (passa un po’ o passa del tutto, non ha importanza). 

Noi non siamo esseri completamente bloccati in noi stessi, anche noi in ogni momento stiamo cambiando e qualcosa in noi sta sorgendo e passando, sorgendo e passando. Questo è il senso.

La reazione, l’equanimità

C’è stato un momento in cui stavo soffrendo tantissimo la nostalgia di casa, delle persone, dei miei ritmi, del mio lavoro. Mi sembrava di non potercela fare e mi sono proprio ritrovata come ad un bivio: andare via o restare.

A quel punto mi sono arresa.

Ho deciso di dare completa fiducia alla tecnica, prendere anche quella sofferenza come parte del percorso e restare, sperimentare, osservare quello che sentivo e anche le mie reazioni.

Ho capito, profondamente capito un concetto che condividevo già, ma lì l’ho sentito come se fosse inciso nel mio corpo: ad ogni evento piccolo o grande di ogni giorno della nostra vita c’è una reazione nel corpo. A quella reazione fisica segue una reazione emotiva, e più si comprende il suo carattere di impermanenza più questa lo sarà davvero.  Le emozioni si continueranno a provare sempre, ma si potranno anche non trascinare a lungo nel tempo. Si comprende cosa vuol dire che è possibile vivere sempre di più solo il momento presente.

Imparare ad osservarsi con equanimità (cioè senza connotare l’osservazione di un giudizio) aiuta molto in questo percorso di umile riconoscimento di se stessi e dei propri automatismi. Se ci si vede e ascolta davvero, senza giudicarsi, si può anche darsi la possibilità di cambiare le proprie reazioni, senza bisogno di sentirsi in colpa per come si è.

Ci si può permettere di assumere uno spirito da ricercatrice e studiosa: si ha a disposizione un’intera vita fatta di tanti momenti presenti per lavorare su se stessi.

Il giorno dieci

Il decimo giorno è l’ultimo prima della partenza. Finisce il Nobile Silenzio (rimane solo il divieto di contatto fisico, per tutelare persone particolarmente sensibili che possono sentirsi ancora invase da un’energia così forte, dopo tutta questa solitudine) e inizia la Valanga di Parole (questo è un termine mio!).

Finalmente ho potuto dire grazie a chi avrei voluto ringraziare per giorni, ho potuto scusarmi, chiedere “come stai” alla mia compagna che si era ammalata, ho riso, forte e tanto. Il decimo giorno è stato proprio liberatorio, mi sono accorta di conoscere le mie compagne di stanza molto di più di quanto pensassi, solo per aver condiviso gli spazi fisici.

La pratica quotidiana

Le indicazioni sono di continuare a meditare due ore ogni giorno: un’ora al mattino e un’ora alla sera.

In questi giorni sto cercando di capire quali sono i momenti migliori per me per farlo. Inizialmente ero partita a dritto con “un’ora al mattino ok, ma un’ora alla sera mai, faccio mezz’ora prima di dormire”. Ora, dopo tre giorni di prove, ho capito che “prima di dormire no bene meditare” per me: mi viene sonno immediatamente e non tengo duro nemmeno venti minuti, quindi ora proverò a meditare subito dopo il lavoro, prima di cena. Al mattino è più facile: fino ad ora mi sono messa una sveglia silenziosa (benedetta tecnologia, che mi ha permesso di avere il fitbit che vibra solo al mio braccio) intorno alle 4.30: mi sveglio, mi metto una maglia e uno scialle e medito un’ora, poi mi rimetto a dormire.

Le conclusioni

È stata una grande esperienza, ho imparato tanto e da tanti punti di vista. È profondamente intensa, faticosa, bellissima.

Nel discorso finale ci hanno detto che sarebbe bene ripetere un corso di dieci giorni ogni anno, ma non credo che io lo rifarò, di sicuro non per dieci giorni: è troppo dura, non mi voglio sottoporre di nuovo a questa sofferenza, nonostante sia davvero una grande cosa.

Non credo che un corso Vipassana sia adatto a tutti. Se volete partecipare leggete bene bene tutte le informazioni del sito, parlatene con chi ha già fatto il corso ma soprattutto chiedete tutte le informazioni che volete a chi li organizza. Hanno grande esperienza e sapranno di sicuro consigliarvi e insieme potrete capire se siete adatti a frequentarlo. Non perché chi ci va sia in alcun modo una persona migliore di chi non lo fa, ma perché andarci e poi essere costretti a venire via perché non era il momento giusto può essere davvero frustrante e non ne varrebbe la pena.

Io ho trovato, come mi era stato augurato, più di quello che cercavo, e a volte si può non essere preparati per questo.

Una foto con quasi tutte le mie compagne di stanza: io sono la seconda da sinistra
Alcune delle mie compagne di avventura, e le nostre faccine stanche, ma con gli occhi che brillano