
/
Perché si parla di “leadership al femminile”
Quando sentiamo parlare di leadership al femminile, la prima domanda dovrebbe essere: perché c’è bisogno di specificare il genere? Nessuno parla di leadership al maschile perché, storicamente, la leadership è stata considerata un territorio maschile. Questo rende evidente quanto il concetto stesso sia ancora legato a uno squilibrio di potere.
In Italia, la presenza femminile in posizioni di leadership non solo resta bassa, ma sta addirittura calando. Secondo il Global Gender Gap Report 2024, il nostro Paese si colloca all’87° posto su 146 per la parità di genere nel mondo del lavoro. Le donne occupano meno di un terzo delle posizioni di leadership e la loro presenza diminuisce ulteriormente salendo nella catena di comando. In parole povere: il gender gap è ancora lontano dall’essere colmato, e più si sale verso ruoli di leadership, meno donne si vedono.
Ma non si tratta solo di numeri: la questione è culturale. L’idea che una donna in una posizione di comando sia un’eccezione riflette uno stereotipo ancora radicato. Eppure è dimostrato che la presenza di donne leader migliora la produttività, favorisce ambienti di lavoro più inclusivi e riduce il turnover del personale.
Allora perché questo divario persiste?
Perché, nonostante i dati e le evidenze, continuiamo a immaginare il leader come un uomo?
Il problema non è solo l’accesso alle posizioni di potere, ma anche la resistenza a riconoscere modelli di leadership diversi da quello tradizionale, spesso associato a tratti autoritari e gerarchici.
È proprio da qui che nasce la riflessione sulla leadership al femminile: un tentativo di ridefinire il concetto di leadership, includendo competenze come l’empatia, l’ascolto e la cura. Ma è davvero utile parlare di leadership “al femminile”?
Oppure è arrivato il momento di andare oltre, verso un modello che non sia definito dal genere, ma dalla capacità di creare valore, inclusione e cambiamento?
Cosa si intende per leadership al femminile
La leadership al femminile richiama la leadership democratica, con un focus sulle qualità considerate “femminili”: empatia, ascolto, cura.
Essere donne e leader è ancora considerata una peculiarità, e per questo alla leadership “al femminile” sono state associate alcune qualità spesso assenti dall’immaginario leader (uomo, dispotico, senza competenza emotiva) a cui siamo abituate.
È interessante notare che un capo uomo con queste qualità è considerato “evoluto”, “al passo con i tempi”, qualcosa in più della base insomma, mentre diamo per scontato che una donna leader le possegga. Se si allinea con le leadership maschili che conosciamo ci sentiamo deluse e a volte addirittura diciamo che fa l’uomo, o la chiamiamo uoma.
Ci si aspetta, quindi, che una leader donna sia anche empatica, capace di ascoltare, incline alla cura delle persone, solo perché è donna.
I vantaggi di essere leader con queste competenze sono:
- creazione di ambienti collaborativi e attenti al benessere delle persone
- promozione di relazioni solide all’interno del gruppo
- creazione di role model che portano a un aumento dell’occupazione femminile anche a livelli alti
Potremmo chiamarla semplicemente leadership democratica con competenze emotive? Sì, certo, e infatti gli svantaggi di implicare che questo tipo di leadership sia prerogativa del genere femminile sono a questo punto ovvi:
- si ricade nello stereotipo di genere per cui le donne sono per natura più empatiche e collaborative
- si ritiene un uomo senza le competenze di cui sopra comunque in grado di essere un buon leader, mentre si mette in discussione la capacità di essere brave leader di donne che non si riconoscono in quello stereotipo
- si suppone che competenza emotiva, empatia, capacità di ascolto e di cura delle relazioni non siano competenze acquisibili, ma solo presenti per natura nelle donne
E perché invece si dovrebbe chiedere una leadership femminista
La leadership femminista non è una leadership “di donne”: è un cambiamento nel sistema.
È una leadership consapevole e trasformativa:
- Richiama concetti della leadership distribuita: condivisione del potere, valorizzazione di tutte le competenze, indipendentemente dal genere.
- Introduce la dimensione politica e culturale: vuole superare non solo le gerarchie, ma anche le oppressioni sistemiche.
- Sfida le strutture gerarchiche tradizionali con la distribuzione del potere
- Promuove l’uguaglianza sostanziale, riconoscendo e affrontando le disuguaglianze dovute a genere, classe, razza o etnia, disabilità, orientamento sessuale, …
- Smonta stereotipi e discriminazioni sistemiche
- Valorizza competenze nelle diversità, cercando attivamente le persone con le competenze anche nelle categorie marginalizzate
- Si impegna a portare con sé, in alto più diversità possibili. Non vuole restare l’unica donna (o l’unico essere illuminato) al comando, ma avere intorno a sé altre donne, persone queer, nere, di colore, con disabilità, ecc. Vuole insomma essere transazionale, anche per il bene della produttività aziendale
-
Vantaggi:
- Promuove inclusione, equità e giustizia sociale
- decostruisce gli stereotipi
- promuove l’autonomia e la distribuzione consapevole del potere
-
Rischi:
- Richiede consapevolezza e competenze avanzate da parte di tutto il gruppo
- Può essere percepita come troppo “radicale” in contesti tradizionali
Come fare, in pratica
È necessario fare un lavoro di decostruzione dei propri stereotipi per riconoscerli e poterli affrontare. Parallelamente a questo è importante lavorare sulle competenze di leadership e sulla creazione di gruppi consapevoli e competenti.
Se l’ambiente presenta delle resistenze a questo tipo di leadership si può iniziare da un modello di leadership “al femminile”. Gli step successivi (che teoricamente non dovrebbero essere tra loro troppo lontani nel tempo) sono:
- favorire attivamente politiche di assunzione inclusive, che permettano l’accesso anche alle categorie marginalizzate. Ad esempio, anziché limitarsi a pubblicare offerte di lavoro standard, si possono creare percorsi di scouting attivi e partnership con organizzazioni che promuovono la diversità.
- creare ambienti di lavoro sicuri, in cui la partecipazione attiva sia stimolata e ogni persona si senta legittimata a esprimere idee e opinioni, senza il timore di subire giudizi o ritorsioni. Questo include la gestione consapevole dei feedback e la valorizzazione dei contributi di tutte le voci.
- promuovere una comunicazione chiara e inclusiva, che riduca ambiguità e gerarchie implicite. Ciò significa utilizzare un linguaggio accessibile, ascolto attivo e spazi strutturati per il confronto costruttivo.
- ridefinire il concetto di leadership come un processo condiviso, non come una qualità individuale. Questo si traduce nell’adozione di pratiche di leadership distribuita, dove il potere decisionale viene condiviso e le competenze di ciascun membro del team sono riconosciute e valorizzate. Per esempio, si possono introdurre riunioni circolari in cui la leadership ruota, o task force temporanee guidate da persone con competenze specifiche sul tema trattato.
- misurare e monitorare l’impatto delle pratiche di leadership: non basta introdurre cambiamenti, è fondamentale valutarne l’efficacia nel tempo. Si possono utilizzare strumenti come sondaggi interni, analisi sul clima aziendale e feedback periodici per capire se le dinamiche stanno realmente diventando più inclusive e partecipative. Ad esempio, si può adottare una cultura del feedback continuo, in cui il confronto non avviene solo in occasioni formali, ma diventa parte integrante della vita aziendale. Questo approccio consente di intercettare tempestivamente eventuali criticità e promuovere un miglioramento costante.
Nell’ottica di spostarsi verso una posizione più aperta è importante formare tutte le parti in gioco nell’azienda. Per questo si possono fare specifiche formazioni che da una parte rendano dipendenti e consulenti più autonomi e responsabilizzati e dall’altra parte integrino nelle persone più in alto nella gerarchia aziendale una visione critica e sistemica dei processi aziendali, in modo che possano apprezzare i vantaggi di una leadership distribuita e femminista.
In questo senso le regole della comunicazione proposte dall’Analisi Transazionale, e i suoi stessi principi, possono essere un valido punto di riferimento e timone per la creazione di squadre affiatate ed efficaci, composte da persone diverse che portano punti di vista arricchenti per tutto il gruppo.
In definitiva, la leadership non è una questione solo di genere, ma di visione.
Non basta cambiare chi occupa le posizioni di potere se il sistema resta lo stesso.
Una leadership femminista non è un modello da applicare, ma un processo da costruire, ogni giorno, attraverso scelte consapevoli, relazioni autentiche e la volontà di mettere in discussione ciò che diamo per scontato.
Non si tratta di sostituire un modello con un altro, ma di creare spazi in cui ogni persona possa essere leader della propria esperienza, contribuendo al benessere collettivo.
Chi è leader deve sapersi adattare al contesto e alle persone, favorendo cambiamenti positivi in tutto il sistema.
Foto di CoWomen