Durante la pandemia del 2020 ci siamo privati di tutta una serie di contatti sociali: niente chiacchiere sul tempo con i nostri vicini di casa, no al caffè con un’amica, niente abbracci ai nostri genitori, alcuni di noi sono stati persino lontani dalla propria persona.

Per compensare queste mancanze abbiamo iniziato a prendere aperitivi online, fare colazioni via whatsapp, videochiamare la nonna in casa di riposo.

Perché non possiamo privarci del contatto (se non fisico, almeno virtuale) con le altre persone? Come mai abbiamo così bisogno degli altri?

Il piede sente il piede quanto sente la terra (il buddha)

In analisi transazionale c’è un concetto che ci può aiutare a capirlo: quello di carezze.

Carezze e riconoscimenti

Non c’è dubbio che il contatto fisico sia un bisogno fondamentale dei bambini. Eric Berne, fondatore dell’Analisi Transazionale, sostiene che gli adulti sentono ancora il bisogno fondamentale di essere toccati, ma possono sostituirlo con altre forme di riconoscimento. Dopo la metà del 1900 insieme al suo allievo e amico Claude Steiner elabora la teoria delle carezze (stroke, in inglese).

Una carezza, in AT, è un qualsiasi atto di riconoscimento: un sorriso, un complimento, una carezza ma anche un insulto. Per noi queste sono tutte conferme che l’altra persona ci ha viste, e rispondono al nostro bisogno di essere riconosciute.

Abbiamo talmente bisogno di carezze (Berne questo bisogno lo chiama fame) che accettiamo carezze negative pur di averne, ed essere quindi viste, riconosciute.

Pensa a una persona molto giovane che, per qualsiasi motivo, viene ignorata per un lasso di tempo significativo. Chiederà attenzioni, in qualsiasi modo, e magari le uniche attenzioni che riceverà saranno urla. Saranno preferibili ad essere ignorata.

Anche da persone ormai adulte conserviamo alcuni tratti di quel bambino, nel nostro stato dell’Io Bambino. E abbiamo lo stesso bisogno di essere viste di quel bambino lì, che se non ha di meglio si accontenta di carezze negative.

Accettare le carezze (positive)

Anche se tutte ne sentiamo il bisogno, per tante persone non è facile accettare le carezze: abbiamo una serie di sovrastrutture (dei Genitori Culturali, in AT) che mettono dei filtri: non essere vanitosa, sii modestonon vantarti e per questo tendiamo a non accorgerci o non accogliere le carezze degli altri, con frasi come chiunque l’avrebbe fattoè tutto merito del fotografoSì, ok, ma Gianfilippo l’avrebbe fatto meglio.

La pandemia, poi, ci ha costrette ad accettare degli ulteriori compromessi: le carezze che abbiamo ricevuto sono state prevalentemente verbali, filtrate da uno schermo, private della gran parte del linguaggio corporeo.

Siamo state in astinenza da carezze.

[…]Il non sentire, il non sentirsi, il non poter dirsi né dire, alimentano il disagio, la malattia, la distanza silenziosa, il pregiudizio, la violenza di chi non capisce rendendosi straniero, rendendoci stranieri.[…] S. Ligabue (prefazione all’edizione italiana dell’Alfabeto delle emozioni, C. Steiner)

Rieducarci alle carezze

Abbiamo bisogno di avvicinarci a noi stesse e agli altri, con calma, delicatezza e gentilezza. Non permettiamo al muscolo del riconoscimento di atrofizzarsi e accontentarsi di accettare carezze negative, abbiamo bisogno di allenarci a chiedere, rifiutare se non le desideriamo, darci e dare carezze.

(Ri)educarci alle carezze è fondamentale nella nostra vita personale e privata, e ha delle ricadute positive anche in quella lavorativa.

Ci sono situazioni in cui c’è bisogno di costruire da zero il nostro rapporto con le carezze, ed è bellissimo farlo in terapia, come dice Liria Valenti.

Le carezze al lavoro

Se impariamo a dare, darci, accettare, rifiutare e chiedere carezze sarà più semplice anche farlo con naturalezza al lavoro.

I feedback per esempio sono carezze (positive o negative).

Quando abbiamo un buon rapporto con le carezze riusciamo a ricevere i feedback in modo sano, discriminando quelli sinceri e positivi da quelli negativi.

Possiamo imparare a dare feedback in modo efficace, e possiamo anche capire se un feedback dato in un certo modo non ci appartiene, senza grosse ripercussioni nel nostro umore né nella nostra giornata.

Di una cosa come questa possiamo parlare nel percorso di mentoring individuale, e sviluppare insieme strategie per l’allenamento alle carezze.