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Sara è una project manager con anni di esperienza, gestisce progetti complessi e mantiene i team motivati anche nelle fasi più difficili. Eppure, nelle riunioni decisive, è spesso l’ultima a essere ascoltata, e quasi sempre è lei a dover prendere appunti o occuparsi delle piccole incombenze, quelle “faccende d’ufficio” che sottraggono tempo e attenzione al suo vero contributo.
Sara si adatta, risponde sempre con gentilezza anche ai toni passivo-aggressivi, pur di non creare frizioni, ma a che prezzo? È scontenta, si sente (giustamente) svalutata, e di fatto la sua autorevolezza è messa in discussione.

A volte adattarsi diventa una strategia di sopravvivenza, e noi rischiamo di diluirci fino a sparire. Più ci diluiamo, meno si sente la nostra voce, e meno si sente la nostra voce meno risultiamo autorevoli. 
La società, e spesso il luogo di lavoro, ci insegna che essere sempre disponibili è sinonimo di professionalità e che il vero successo passa per una lunga serie di micro-concessioni: un sì in più, un’opinione in meno e risposte gentili alle mail passivo-aggressive delle 19 di venerdì.

Non sempre gli adattamenti provengono dall’esterno e sono negativi, e non sempre adattarsi significa rinunciare a parti importanti di noi. Alcuni cambiamenti (se scelti) sono evolutivi e funzionali. D’altra parte l’adattamento ha fatto sì che l’essere umano potesse evolversi fino a qui. L’importante è che adattarsi non diventi la regola, e che così si annulli il contributo che portiamo all’ambiente in cui ci troviamo.

Adattamento, ok-ness e Analisi Transazionale

In questi prossimi paragrafi troverai alcuni accenni di teoria per rendere più chiari i concetti di Analisi Transazionale che uso nel testo. Puoi scegliere di leggerli ora, saltarli completamente, o tornare qui se qualcosa non ti torna. Se vuoi saltare tutto questo blocco puoi andare direttamente al prossimo.

Il Bambino Adattato

In Analisi Transazionale, lo stato dell’io Bambino si divide generalmente in due (o tre, dipende): il Bambino Libero, il Bambino Ribelle e il Bambino Adattato. Il Bambino Adattato è quello che impara le regole (che gli vengono imposte dalle figure genitoriali e dalla società e cultura a cui appartiene) e si adatta in modo da vivere una vita sicura e soddisfacente. 
Nota: stiamo parlando di parti di noi che sono presenti anche quando siamo persone adulte, non solo quando siamo bambine. Ad esempio, quando attraversiamo la strada solo con il semaforo verde stiamo utilizzando la nostra parte Bambino Adattato che si ricorda la regola e la applica per salvarsi la vita.

C’è una parte “oscura” del Bambino Adattato, ed è quella che mettiamo in scena quando ci limitiamo a seguire qualsiasi regola ci venga proposta, senza prima valutare se è buona per noi e per l’idea di umanità che abbiamo in mente, e questo ci fa sentire a disagio, oppure proprio male.

Ad esempio quando accettiamo che siamo sempre noi a portare i caffè alle riunioni, anche quando dobbiamo poi presentare la nuova offerta commerciale: in quel momento adattarci a fare la cameriera non è utile per noi (perché ci distrae dal nostro scopo principale) né per il gruppo di persone a cui parleremo (perché le confonde, essendo quello il ruolo che dovrebbe assumere un’altra persona).

Il nostro scopo, quindi, è riconoscere quando il nostro Bambino Adattato è mediato dallo Stato dell’Io Adulto, che ci aiuta a trasportare le regole (o i bias o i pregiudizi) nella realtà del qui e ora, e ci fa decidere se è giusto adattarsi o c’è bisogno di dire “no”.

Bias e Pregiudizi

In particolare, in questo caso, è importante fare attenzione al pregiudizio della “brava professionista”, quell’ideale che vorrebbe ogni donna impeccabile e silenziosa: che fa un passo indietro senza lamentarsi, senza disturbare, senza pretendere riconoscimento.

Ok-ness

Ok-ness è sentirsi bene, a proprio agio, nel posto giusto. In AT l’ok-ness è un concetto molto ampio, di cui ora a me interessa solo la conclusione: lo stato migliore in cui possiamo stare è quello in cui noi ci sentiamo OK e sentiamo che anche l’altra persona è OK. Il che non vuol dire che le vogliamo bene o siamo d’accordo con lei, ma che la consideriamo un essere senziente, in grado di avere opinioni proprie e degna di rispetto, e consideriamo nello stesso modo noi stesse.

Con queste premesse, costruire autorevolezza non parte quindi dalla rottura, ma dal movimento interiore che dalla ricerca di approvazione esterna porta a una solida ok-ness interna (cioè io mi sento Ok con me stessa, e questa ok-ness non dipende da cosa pensano le altre persone di me). A quel punto si può scegliere (oppure no) di adattarsi, senza perdere il proprio centro.

Adattarsi non è sempre un problema…fino a che lo diventa

Come dicevo all’inizio, adattarsi a volte permette di sopravvivere nel tessuto dei rapporti sociali e lavorativi. Dire che non bisogna mai cedere sarebbe ingenuo, perché la vita include compromessi ragionati (la presenza dello Stato dell’Io Adulto aiuta a calare nella realtà le emozioni e le sensazioni della nostra parte Bambina). 
Il problema nasce quando le micro rinunce e i compromessi si accumulano, giorno dopo giorno, e ci svuotano. Quello che all’inizio sembra un piccolo passo indietro, un tono più morbido, una parola non detta, un sorriso forzato dopo una battuta poco simpatica, diventa il prezzo invisibile per mantenere l’equilibrio.

Succede, per esempio, che nelle riunioni chi parla per ultimo e chiude il meeting raramente sia una donna, e invece che ci si aspetti che sia lei a mandare il protocollo e a ricordare le scadenze, senza un grazie all’inizio o alla fine. 
Oppure che si accettino ruoli di supporto, come prendere il caffè, rispondere alle mail o prendersi cura delle “faccende d’ufficio”, pur avendo competenze e responsabilità diverse, perché gli altri lo danno per scontato, o per farci accettare di più.

L’adattamento smette di essere funzionale quando contribuisce a far scomparire.

L’ambiente ostile: come riconoscerlo

Raramente (per fortuna!) un ambiente ostile si rivela in un’aggressione esplicita. 
Molto pesanti e più subdole sono invece le microaggressioni: quei segnali sottili di invisibilizzazione e svalutazione a cui spesso non si dà peso razionalmente, ma che erodono la fiducia in sé. 

Essere ignorate nelle decisioni importanti, messe in secondo piano nelle conversazioni, ricevere continuamente incarichi sotto le proprie competenze. Ma anche banalmente essere sempre quelle che prendono appunti nelle riunioni, fanno i verbali, si occupano dell’ordine del giorno (e portano i caffè). Fanno sempre e solo le moderatrici in panel di soli uomini.

Questi segnali non sono un problema momentaneo ma un lento processo di esclusione che mina la fiducia e la percezione del proprio valore. Il rischio è interiorizzare la colpa, credendo che il problema sia personale, quando invece il limite è esterno.

Riconoscere questi segnali permette quindi di riconoscere che il problema è ambientale (strutturale, aziendale). Da qui si può partire per costruire una strategia che mantiene la propria ok-ness e aiuta a costruire autorevolezza, senza soccombere.

Autorevolezza vs compiacenza

C’è una differenza sottile ma fondamentale tra farsi ascoltare e piacere a tutti.

L’autorevolezza si costruisce mettendo in luce competenze, valore e fermezza, la compiacenza nel cercare di evitare ogni minimo conflitto o scontentare qualcuno.

La compiacenza si potrebbe confondere con la diplomazia, ma è molto più spesso sinonimo di rinuncia a sé stesse. Quante volte si paga un prezzo personale alto per non essere sempre quella a cui non va bene niente? Oppure si scelgono parole più morbide, atteggiamenti concilianti solo per evitare discussioni?

Questo meccanismo nasce dal bisogno di sopravvivere in ambienti critici verso le donne che non stanno al loro posto (cioè nell’angolo e in silenzio). In questi contesti esprimere chiaramente il proprio pensiero rischia di essere interpretato come “troppo” o “aggressivo”. Bilanciare quindi il bisogno di dire quello che si pensa e il mantenere l’ambiente sicuro diventa come camminare in un campo minato. Ogni passo falso può essere usato per delegittimare la presenza, anche professionale e in molte situazioni evitare il conflitto è l’opzione più strategica e magari più efficace per la carriera.

In questo articolo ti propongo delle strategie per esistere nel dibattito senza farti (troppo) male, ma sta a te, di volta in volta, capire se è meglio impegnarti oppure lasciar perdere.

Se dimostri la tua autorevolezza (e provi anche a te stessa il tuo valore) probabilmente scontenterai qualcuno, di solito chi ti vuole solo carina e coccolosa.

Costruire autorevolezza partendo da sé

Costruire autorevolezza in ambienti ostili parte dal riconoscere e coltivare la propria ok-ness, ovvero quel sentirsi a proprio agio e in pace con sé stesse, indipendentemente da quanto l’ambiente esterno ci riconosca (ne ho parlato nel paragrafo di teoria). 
Quando ci sentiamo ok con noi stesse non sentiamo il bisogno di avere il permesso o l’approvazione altrui per riconoscere il nostro valore e la nostra competenza.

Questo significa mantenere saldo il centro (stare nell’Adulto integrato), anche quando intorno tutto traballa. È riconoscere che la propria voce ha diritto di essere ascoltata, anche se non arriva subito l’approvazione sperata (e anche se a volte sbagliamo!).

Certo: abbiamo sempre bisogno di riconoscimenti, ma è importante che non riteniamo che gli unici veramente validi siano quelli che vengono da fuori. È una conquista che richiede tempo, pratica e spesso anche “allenamento” a resistere ai tentativi di invisibilizzazione o svalutazione.

Cosa fare per nutrire la tua ok-ness e aumentare l’autorevolezza

Con il tempo troverai i tuoi modi, intanto io ti faccio qualche esempio: provali e vedi se ti ci senti bene:

  • Prenditi un momento di respiro prima di rispondere a critiche o commenti svalutanti, per non reagire con il solo stato dell’Io Bambino ma usando il tuo Stato dell’Io Adulto integrato.
  • Ricorda e annota i tuoi successi e i feedback positivi, anche quelli piccoli e apparentemente meno importanti, per mantenere viva la percezione del tuo valore.
  • Usa affermazioni semplici ma ferme come “Questo è il mio punto di vista” o “La mia esperienza mi porta a pensare che…” per radicare la comunicazione nella tua competenza.
  • Tieni presente che sbaglierai, ma che l’errore fa parte del percorso di crescita e non intacca la tua autorevolezza. Usa i tuoi errori per imparare qualcosa di nuovo di te e del tuo lavoro.
  • Riserva tempo in agenda per attività che rinforzano la tua identità professionale e personale (letture, corsi, momenti di riflessione, ma anche cose fatte solo perché ti piace farle, anche se ti vengono malissimo), per nutrire l’ok-ness interna.
  • Poni confini chiari su cosa sei disposta a fare e cosa no

Strategie di comunicazione efficace e simbolica

La parola chiave, come sempre, è allenamento. Provare modi e toni finché non trovi quelli giusti per te, che ti fanno sentire a tuo agio, non snaturano il tuo modo di essere e resta incisivo.

Resta nell’Adulto che integra tutte le parti di te, anche quelle Bambine, e parla all’Adulto dell’altra persona senza lasciarti trascinare nei giochi psicologici (che in Analisi Transazionale sono dinamiche disfunzionali della comunicazione). Non cercare di compiacere per forza, non mediare sempre e comunque.

Qualche esempio di comunicazione Adulta che si rivolge all’Adulto dell’altra persona

  • Scegli parole che rinforzano la tua posizione, anche se sei in minoranza: “Su questo punto ho una visione diversa e la spiego volentieri”
  • Se qualcuno fa interventi svalutanti, tu rimani sull’Adulto e rispondi solo a ciò che è utile alla discussione (senza scivolare in giustificazioni infinite)
  • Quando ti viene chiesto di “essere flessibile”, verifica se il compromesso serve a migliorare il progetto o solo a mantenere l’equilibrio dei rapporti
  • Ricordati che la comunicazione efficace non è sempre amichevole o accomodante: può essere ferma, precisa, assertiva e anche poco “simpatica”

Vedi questi come strumenti di resistenza e di autoaffermazione. Sono il modo per proteggere e consolidare la tua autorevolezza.

Essere autorevoli in ambienti ostili richiede coraggio per restare fedeli a sé ma non è mai un viaggio individuale.

L’autorevolezza si nutre di reti che si creano scegliendo le persone giuste a cui raccontare la propria esperienza, con cui scambiare strategie, a cui chiedere supporto e offrire ascolto dentro spazi sicuri. Come quasi tutto è un atto personale e politico.

La costruzione della solidità professionale vive anche di piccoli gesti collettivi: un confronto inaspettato che ti fa sentire meno sola, una parola di incoraggiamento che arriva da chi, come te, sta affrontando la sua battaglia quotidiana. Il potere di scegliere dove e con chi stare è già una forma di resistenza, un modo per dire basta senza rumore, ma senza rinunciare mai alla propria voce.

Se vuoi iniziare da qui e trovare altre persone che stanno lavorando sugli stessi temi, puoi iscriverti al webinar introduttivo sulla comunicazione. Uno spazio pensato per acquisire nuovi strumenti e trovare nuove alleate, in cui puoi sperimentarti senza paura di essere svalutata. Ti aspetto!