Il lavoro ci attraversa, anche quando non è tutta la nostra vita

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Sono nata in Veneto, e fatico a togliermi dalla testa e dalla pancia l’idea che il (duro, faticoso, ingrato) lavoro sia il fondamento della vita. Dalla testa o meglio: dal mio Genitore Culturale, quella parte che interiorizza le regole e le credenze della società in cui siamo cresciute. Quello che posso fare è allenare il mio Stato dell’Io Adulto a riconoscere che quella voce non è la mia. E raccontarlo anche al mio Stato Bambino, che dice che no, non ha per niente voglia di farsi schiacciare da una convinzione del genere.

Quello che è certo (anche per chi non viene dal profondo nord-est) è che il lavoro incide su tutto: identità, benessere, possibilità di scelta.

Il lavoro ci dà una forma. Quando ci presentiamo, spesso diciamo anche di cosa ci occupiamo: cosa facciamo, chi siamo nel lavoro. E questo contribuisce a definirci. Pensa, per esempio, a chi fa un lavoro difficile da spiegare: se non lo capiamo quella parte della sua vita resta nebulosa. E a noi sembra quasi che gli manchi un pezzo.

Il lavoro ci dà benessere, certo. Chi dice che i soldi non fanno la felicità è spesso una persona che i soldi li ha sempre avuti. Avere o non avere un lavoro, oggi, incide anche sul tipo di indagini o cure mediche che ci possiamo permettere. E su quando possiamo permettercele.

Ci dà possibilità di scelta: dove andare in vacanza, che vestiti comprare, quali cause sostenere: come e quanto.

E poi il lavoro rappresenta qualcosa di diverso, a seconda della fase della vita in cui ci troviamo: un mezzo per diventare indipendenti, un trampolino per affermarci, un rifugio che ci dà un posto sicuro da cui ripartire, o ancora un modo per sostenere altri progetti e passioni, fuori dal lavoro.

A seconda di come ci sentiamo, dell’idea che abbiamo di noi stesse, dei ruoli che abbiamo imparato a interpretare o che ci permettiamo di immaginare, il lavoro può funzionare da conferma, e contribuire a farci sentire incastrate.

In questo articolo parliamo di tutto questo: poche risposte, come sempre, ma spazio per fermarsi a riflettere e diventare più consapevoli insieme.

Se non lavori, non sei

Il Veneto degli anni 80-90 è il luogo in cui per eccellenza il lavoro rappresenta la realizzazione. Se non lavori (duramente, facendo fatica e sacrifici) vali poco. Il lavoro serve proprio per riconoscersi e dividersi: tu puoi andare nel blocco dei lavoratori dipendenti (lavori di concetto: bene, molto bene), tu in quello dei proprietari di aziende ricchi di famiglia (tuo padre ha fatto tutto da solo, partendo da zero, e tu figlio manderai tutto in rovina. Figlia? vai a fare la segretaria e renditi invisibile), tu in quello degli operai (ti sporchi le mani e fai tanta fatica: bene, per una persona che ha studiato poco: è molto dignitoso), ah: tu sei casalinga? allora non lavori e menomale tuo marito porta a casa i soldi e mantiene la famiglia.

Così il quadro è completo: ognuna e ognuno va al suo posto, e da quel posto difficilmente si potrà spostare. Però c’è da dire che così è tutto molto tranquillizzante: se stai lì e stai buona nessuno ti può venire a dire che non vai bene. Certo: se invece ti ci senti stretta cominciano i problemi, ma metti giù la testa e fai fatica, vedrai che ti passa la voglia di pensare a altro.

So che può sembrare un’immagine cupa della mia regione, ma per me è stata, per lungo tempo, una verità difficile da smontare.

Se il lavoro diventa l’unico luogo in cui c’è valore, in cui possiamo veder riconosciuto il nostro valore, spesso è perché altrove questa ricerca ci risulta impossibile. Magari non ci è stata mai data la possibilità di vedere altri modi per realizzarci, altri luoghi a cui appartenere. O perché i nostri tentativi di fiorire da altre parti sono stati negati.

E in questo caso lavoreremo tanto, il più possibile, perché solo lì possiamo realizzarci e continuare a confermare la convinzione che abbiamo riguardo noi e il lavoro: io sono ok solo se lavoro tanto, facendo tanta fatica, e simili.

Lavorare tanto non è per forza negativo: sarebbe una semplificazione. Possiamo anche scegliere consapevolmente di lavorare tanto, perché la scelta di realizzarci nel lavoro è personale. La grande differenza c’è quando la consapevolezza proviene dallo Stato Adulto, quindi non contaminato dal Genitore (quello che dice “devi lavorare duro perché se no non sei valida”, “lavora tantissimo perché hai fatto della tua passione il tuo lavoro e quindi non hai bisogno di riposarti” o voci simili) e/o dal Bambino (”devo lavorare perché si fa così, i grandi lavorano, i giochi sono dei piccoli” o cose simili).

Siamo davvero consapevoli quando ci fermiamo e ci chiediamo: perché, davvero, lo sto facendo? Qual è il mio scopo? Che bisogno del qui e ora sto soddisfacendo?

E se non abbiamo mai potuto desiderare altro, forse è proprio lì che inizia la possibilità di farlo.

Non accontentarsi del “meglio di niente”

È importante capire perché siamo dove siamo: in questo lavoro, in questo momento. Una delle risposte classiche è “con tutta la gente che cerca lavoro io sono fortunata ad averne uno”. Può essere. Fai attenzione, però, perché restare in ruoli, ambienti, o incarichi tossici solo perché “c’è gente che non ha un lavoro” può essere un autosacrificio che alla lunga sfinisce, e rischia di farci ammalare (mentalmente o fisicamente).

Anche questo è un tema di confini: chiediti sempre perché: che bisogno o bisogni soddisfa questo mio lavoro? È sufficiente per me, dato il sacrificio che mi richiede? Lo faccio per soddisfare un bisogno mio o per aderire a un comportamento che mi è richiesto (dalla società, per esempio?).
E chiariamoci: ogni bisogno è lecito, dal desiderio di comprarsi qualcosa al mercatino delle pulci al bisogno di un tetto sopra la testa. Le priorità esistono, ma sceglierle spetta a te.

In Analisi Transazionale parliamo di copione limitante quando la nostra storia, il nostro passato, gli insegnamenti ricevuti e le esperienze che abbiamo vissuto quando eravamo persone molto molto giovani ci hanno insegnato che dobbiamo accontentarci, che non meritiamo di stare meglio. E quindi facciamo scelte che vanno in quella direzione. Il potere del nostro Adulto Integrato è quello di farci capire (e farcelo capire anche nella pancia, in modo che arrivi anche quella personcina molto giovane che aveva deciso di accontentarsi) che quello che è successo nel passato rimane lì, e ora siamo in un momento diverso, in cui le cose possono cambiare. Se queste convinzioni sono molto radicate e permeano tutta la nostra vita non è leggere un articolo in un blog che ci farà cambiare, ma magari possiamo iniziare ad aprire uno spiraglio nel lavoro, e vedere che succede. Per il resto c’è la terapia 😉

Restare, quindi, non è sempre una scelta sbagliata. Ma è importante che sia davvero una scelta.

Consapevolezza sì, ma a che scopo?

Negli ultimi anni, il lavoro è diventato uno dei luoghi principali in cui si parla di consapevolezza: mindfulness, meditazione, esercizi di respirazione, visualizzazioni. Tutto molto interessante, tutto molto promettente. Ma anche: tutto molto rischioso, se non si tiene conto del contesto.

Perché una cosa è praticare la consapevolezza per rientrare in contatto con sé, ascoltarsi davvero, scegliere. Un’altra è farlo per gestire meglio lo stress che ci viene imposto, per “respirare dentro la fatica” e continuare a produrre.

Una cosa è prendersi uno spazio per sentire cosa ci fa bene. Un’altra è imparare a sopportare meglio ciò che ci fa male.

Le pratiche di consapevolezza possono essere strumenti preziosi: la mia storia personale e lavorativa ne è costellata, e la mia vita non sarebbe la stessa senza la meditazione. Ma come ogni strumento, dipende da chi le propone, da perché le pratichiamo, e se possiamo davvero scegliere.

Ci aiutano ad attivare lo Stato Adulto, certo. Ma se vengono imposte dall’esterno o usate come scudo per non vedere la realtà (nostra o aziendale), rischiano di diventare l’ennesima forma di adattamento (non attivano veramente l’Adulto, ma semmai il Bambino Adattato: quello che si sforza di andare bene, anche quando qualcosa non va.).

Allora forse la domanda è sempre la stessa: lo faccio per me, o perché si fa così? Sto ascoltando me stessa, o sto solo cercando un modo per farmi andare bene qualcosa che non mi fa bene?

La consapevolezza vera, quella che libera, non è quella che ci rende più brave a stare in situazioni sbagliate. È quella che ci aiuta a riconoscerle. E, se possiamo, a scegliere altro, anche solo cominciando a immaginarlo.

Realizzarsi davvero: questione di spazi, non solo di forza

Autorealizzarsi attraverso il lavoro è una possibilità. Ma non è un dovere, e non è una prova di valore.

Può essere una spinta potente, un desiderio autentico, ma per potersi realizzare davvero serve un contesto che lo renda possibile. La spinta individuale, da sola, non basta.

Se l’ambiente in cui lavoriamo è giudicante, competitivo, dominato da dinamiche di potere e invisibilizzazione, non importa quanto ci impegniamo o quanto siamo “brave”: ci scontreremo sempre con muri alzati da altri.

Il mito della realizzazione personale che dipende solo dalla nostra volontà è una trappola. È la versione moderna del “se vuoi, puoi”. Ma non è sempre vero. Possiamo volere tantissimo, e sbattere comunque contro un sistema che non ci vuole.

In questi casi, la consapevolezza serve anche a questo: a non interiorizzare la colpa di qualcosa che non dipende (solo) da noi. A non trasformare il desiderio di esprimere chi siamo in un continuo adattamento per essere accettate.

In Analisi Transazionale si parla di Permessi: non quelli concessi dall’esterno, ma quelli che impariamo a darci dentro. Il permesso di non dover sempre dimostrare. Il permesso di scegliere il proprio ritmo. Di fiorire altrove, se serve

E in questi casi il lavoro “buono abbastanza” può essere ciò di cui abbiamo bisogno per concentrarci su altro.

Perché sì, il lavoro può essere un luogo dove ci realizziamo. Ma non deve diventare il luogo dove ci perdiamo.

E oggi, cosa voglio davvero dal mio lavoro?

Non tutte vogliamo le stesse cose dal lavoro. E nemmeno noi stesse vogliamo sempre le stesse cose per tutta la nostra vita.

Ci sono momenti in cui il lavoro è tutto: l’unico spazio in cui sentirci capaci, ascoltate, riconosciute. Altri in cui è solo uno dei pezzi. Altri ancora in cui ci serve solo per riempire (più o meno metaforicamente) il portafoglio.

Vale tutto, se è una scelta consapevole. Vale tutto, se è una risposta a ciò che siamo oggi e non a ciò che ci hanno insegnato o abbiamo imparato a essere.

Magari in questo momento stai bene dove sei. O magari no, ma sai che per ora ti serve rimanere. Magari stai cercando qualcosa di diverso. Magari non ancora, ma inizi a pensare che potresti.

In ogni caso, puoi farti questa domanda: cosa mi dà, adesso, il mio lavoro?

E se la risposta non ti piace, non ti rappresenta o ti fa sentire troppo piccola, puoi iniziare a cercare un cambiamento. E non serve aspettare domani, non ci sarà mai il momento in cui potrai dire “ho tutto sotto controllo”. Puoi iniziare da adesso, da qui.

A volte basta uno spiraglio per cambiare la forma del respiro. E la traiettoria del cammino.